L'ultimo dell'Anno a Riesi
(brano tratto dal libro Un giorno forse ritornerò di Claudia Lo Blundo) 

Andammo a Riesi ogni estate sin quando non ebbi sedici o diciassette anni, ma ricordo il Natale del 1951, l’unico, trascorso in paese.
Non avevo ancora compiuto dieci anni eppure, a distanza di tanti anni, la gioiosità di quei giorni di festa è rimasta impressa nel mio animo con una dolce nostalgia.
 Abbracciati a cornamuse che mi apparivano fiabesche, i ciaramiddari, gli zampognari, attraversavano le vie del paese e, mentre suonavano nenie natalizie, si fermavano davanti l’una o l’altra abitazione in attesa di ricevere un’offerta.
Andavamo ora da uno ora dall’altro parente ed era un continuo mangiare dolci natalizi e un ridere di fronte al fuoco dei camini e dei bracieri accesi, grosse conche di rame poste al centro delle stanze attorno alle quali si stava seduti a lavorare e a parlare. Oggi, al caldo dei termosifoni, stiamo seduti attorno all’apparecchio TV che ci costringe al silenzio, in quegli anni, invece, si raccontavano storie di persone vive e di chi ormai era passato all’altra vita, si ripetevano proverbi che ormai più nessuno ricorda, si parlava a voce alta senza timore di disturbare i vicini che, al contrario, arrivavano in casa accolti con gioia e, con gioia, venivano invitati a sedere insieme ai presenti.
Ricordo che le persone più anziane, e coloro che volevano proteggersi dal freddo, quando uscivano da casa recavano con loro un piccolo scaldino in rame sormontato da un manico a tre o quattro raggiere, dal quale pendeva un grazioso cucchiaio piatto, che serviva a ravvivare i carboni quando si formava la cenere.
Mio nonno, allora avrà avuto settant’anni, aveva un tabarro, un grande mantello, nel quale avvolgeva lo scaldino che portava da un luogo all’altro e noi piccoli lo invidiavamo perché dovevamo affrontare il freddo senza quel favoloso conforto.
[…]A Riesi, quella notte di Capodanno, cadde un leggero nevischio, una novità che a me e mio fratello rese ancora più fiabesco quel Natale: era improbabile vedere la neve a Palermo e quando nevicò, nel 1956, sembrò un avvenimento straordinario.  
Dentro casa di Pinuzzu non avvertivamo il freddo, il camino era acceso; eravamo in tanti parenti, e Ciccina, moglie di Pinuzzu, sulla grande tavola apparecchiata, aveva preparato tante cose buone: muffuletta, fichi secchi ripieni di mandorle e gherigli di noci, le carrube infornate e tenere i cui semini ci servivano per giocare alla tombola, e i dolci fatti in casa e gli sfincioni, le cassatelle.


Claudia Lo Blundo 




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