QUEL FUOCO PER NOI 
di Claudia Lo Blundo

Prima Parte- Il ragazzo del panificio

Che serata umida e fa freddo! 
Sembra di essere in pieno inverno, questo mese di ottobre è proprio gelido!
Ah, il piacere di questo fuocherello! Abbiamo fatto bene ad accenderlo, riscalda qui attorno e il cuore.
Ma quante scintille! Il legno non deve essere buono! 
Ricordo che una volta al mio paese si incendiò una catapecchia di legno, sarebbe potuta accadere una grossa disgrazia. Fu detto che l’incendio era stato causato da una scintilla sfuggita da qualche ramo non buono: per fortuna non morì nessuno.
Sarà meglio che non pensi al mio paese se no ricomincio a piangere per la nostalgia.
Rimango sempre dell’idea che non si debba mai pensare a tutto quel che appartiene al passato; il passato, del resto, si chiama così perché è passato e basta.
Veramente qualche ricordo carino mi piace conservarlo quello di quando da ragazzina, la prima estate trascorsa a casa di mia zia, mi ero presa la cotta per il garzone di un panificio! Era un ragazzo alto, magro, allampanato, non ricordo il viso, peccato, ma, in quanto a bellezza, non doveva essere un granché. Ricordo che, mi guardava come se avesse voluto dirmi qualcosa.
Quando, finalmente, una volta stavamo per parlarci non riuscimmo nemmeno a scambiarci i nostri nomi: mia zia mi chiamò con voce alterata, poi mi diede uno schiaffo e mi proibì di parlare con quel poco di buono, disse proprio così e questo perché io, diceva lei, andavo a scuola e avrei avuto un futuro ben diverso da quello di un garzone.
Mi vien da ridere al pensiero che io e quel povero ragazzo non avevamo fatto nulla di male, ma da allora, e per tutta l’estate, mia zia non smise mai di controllarmi. Non l’ho più rivisto e di lui non ricordo nulla, però, ecco, ricordo che mi guardava con interesse. Già, gli uomini mi guardano sempre con interesse, solo che quando ero ragazzina mi lusingava cogliere quel tipo di sguardo che si posava su di me, forse perché sino ad una certa età non capivo il fine di quelle occhiate.
Non mi sembrava di fare nulla di disdicevole eppure mia zia mi rimproverava:
“Non dare confidenza, non guardare i ragazzi, sei sfacciata, cosa diranno i vicini”.
Poi, invariabilmente, finiva con la frase:
“E’ proprio vero: il sangue non mente!”
Il senso nascosto in quelle parole lo avrei scoperto anni dopo, eppure, nel momento in cui le diceva, capivo che in quella frase si nascondeva il senso negativo, oscuro, di qualcosa che lei avrebbe voluto dirmi, non tanto per indurmi a evitare un qualcosa di sbagliato che lei sapeva e che io non comprendevo, quanto, piuttosto, per ferirmi, per farmi vergognare di un qualcosa che ignoravo.



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