Riesi. La lettera perduta

Oggi pubblichiamo alcune pagine del libro La lettera perduta, un triller politico realizzato dallo scrittore di origine riesina Albert Danton. Un romanzo proprio ambientato tra le strade di Riesi, che alcuni mesi fa ne abbiamo parlato in maniera intensa. 



Riesi 1969

Nel Centro della Sicilia, la valle attraversata dal fiume
Salso, era stretta in una morsa soffocante di caldo
umido. La stessa sorte toccava a Riesi, paese agricolo,
fra i monti Giarratana e Santa Veronica.
Riesi che gli arabi avevano chiamato Rahal-Met, casale
abbandonato, prendeva il suo nome dal latino medievale
Rieses, ‘Terre Incolte’. Non era un caso che quel
luogo fosse stato chiamato con quei nomi, come a dimostrare
il suo perenne destino di terra inospitale e povera.
La piazza principale era arroventata dal sole, deserta.
Il grande spiazzo rettangolare era il cuore vitale di Riesi
e meta prediletta della passeggiata serale dei paesani.
Tutte le case che ne delimitavano i quattro lati, avevano
le persiane sbarrate nel vano tentativo di fermare il caldo
soffocante. Gli esili alberelli erano arsi e assetati, impotenti.
Il portale della Matrice, la chiesa Madre dedicata alla
Madonna della Catena, aveva chiuso i battenti già da
qualche ora, dopo la messa del mattino. Alle due del pomeriggio
di quel luglio infuocato anche il ‘caffè’, sempre
animato nelle altre ore del giorno, era tristemente
deserto e, di fronte all’entrata, le sedie e i tavoli di ferro
color argento, riflettevano bagliori accecanti come fossero
intrisi di luce propria.
Nella piazza, nessun suono, nessun odore e nessuna
vita. Solo quello spesso strato di afa che, pian piano, si
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insinuava dappertutto raggiungendo anche gli angoli più
ombreggiati.
Ogni estate, nel centro della Sicilia, potevano capitare
giornate come quella. Al mattino era ancora possibile
sopravvivere, muoversi, camminare, lavorare, ma quando
il sole raggiungeva il punto più alto del cielo e iniziava
lentamente la sua discesa, non c’era più alito di vento
o brezza marina a contrastare quella morsa mortale.
La casa dei baroni Calamita, con la grande balconata
al piano nobile, sorgeva sulla piazza del paese. Era stata
costruita proprio accanto alla Matrice, per sottolineare
l’importanza del nobile casato. Sicuramente aveva conosciuto
tempi migliori. Solo il grande stemma, ancora
visibile sul portone d’ingresso, ricordava la sua origine.
Il resto del palazzo, invece, mostrava i suoi anni e il suo
decadimento. I muri erano scrostati, le persiane cadenti e
l’umidità lo aveva attaccato fin dalle fondamenta.
Il barone Pietro Calamita aveva dissipato al gioco
tutte le sue fortune, riuscendo a salvare dal disastro, solo
quella casa. Per lunghi anni non aveva avuto possibilità
economiche per restituire un po’ dell’antico decoro
a quell’edificio e, per la vergogna, si era chiuso in se
stesso, ignorando le dicerie e lo scherno dei paesani. Alla
sua morte, la proprietà era passata alla figlia Isotta che vi
si era trasferita con la piccola Carlotta.
La baronessa Isotta Calamita aveva imparato fin da
piccola a contrastare l’afa in quei giorni d’estate. Chiusa
nella sua camera, al primo piano, aveva accostato le
persiane e aveva acceso un piccolo ventilatore. Si era
spogliata completamente e si era stesa, immobile, respirando
piano. Con movimenti lenti si spostava continuamente
da una parte all’altra del letto, finché l’aria non
ritornava a essere respirabile. Solo al tramonto avrebbe
aperto le persiane nel tentativo di disperdere il calore
stagnante.
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Sul retro della casa, il giardino, protetto da alberi di
limoni, da vecchi nespoli e dalle grandi pale spinose dei
fichidindia, era il solo posto vivibile. C’era uno spiazzo
ammattonato arredato con un grande tavolo in ferro battuto.
Piccoli viottoli in pietra giravano e si intersecavano
l’un l’altro, lungo tutta la sua ampiezza, circondati da
piante grasse e gerani rossi. In fondo, dopo gli alberi,
una porta e un piccolo magazzino. Grandi ragnatele al
soffitto e un pavimento in terra battuta dal quale si sprigionava
un acre odore di umidità.
La baronessa Isotta Calamita, in quelle lunghe ore,
sola nella penombra della sua camera, accompagnata dal
ronzio del ventilatore, rimpiangeva di aver buttato via la
vita. A soli trentacinque anni, portava sulle spalle il peso
di un matrimonio frettoloso che suo padre aveva fortemente
osteggiato e conservava, segretamente, il ricordo
di una passione breve e intensa che si era poi dissolta nel
nulla. Ma quello che più le pesava era il rimorso per il
suicidio del marito, che non aveva retto al disonore del
tradimento. Era giovane, vedova e ancora innamorata di
quell’amante che, da un giorno all’altro, l’aveva lasciata
ed era scomparso. Ed era proprio il dolore di quell’abbandono
che l’aveva spinta a lasciare Palermo, le sue
amicizie, le feste e i divertimenti per rifugiarsi nel paese
d’origine. Alla fine degli anni Sessanta, in quel povero
e ancora arretrato paese al centro della Sicilia, una vedova
dal passato non completamente specchiato, seppur
giovane e bella, era destinata a rimanere sola per il resto
della vita.
Alla baronessa Isotta era rimasta solo una cosa importante,
sua figlia Carlotta, e aveva promesso a se stessa
che avrebbe cercato in tutti i modi di impedirle di commettere
i suoi errori. Sapeva però che sarebbe stato un
compito difficile perché la figlia, di appena nove anni,
mostrava già un carattere forte e non si sarebbe lasciata
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condizionare dalle regole che lei voleva imporle.
Carlotta era in giardino, seduta sotto un albero di limoni,
giocava insieme ai cugini Gino e Peppe. Stavano
scambiandosi i doppioni di una collezione di figurine e
Gino, forte della sua maggiore età, faceva il prepotente.
“Questa figurina è preziosa” la teneva ben stretta fra
le sue dita “se la vuoi, devi darmene due delle tue!”
“Non è giusto” protestò Carlotta.
“Decido io” Gino alzò la voce.
“Parla piano! La mia mamma sta riposando e se ci
sente urlare, si arrabbia!”
“Va bene, parlo piano” disse bisbigliando “ma devi
darmi due figurine se vuoi questa che non si trova.”
Carlotta guardò Peppe cercando il suo appoggio, ma
subito il cugino abbassò gli occhi, contrito. Era impensabile
per lui, mettersi contro il fratello più grande. Carlotta
insistette cercando di intenerirlo.
“Peppe dai... Abbiamo scambiato sempre una figurina
con un’altra, diglielo tu a tuo fratello!”
La reazione di Gino fu immediata, scattò in piedi e
alzò ancora la voce:
“Sei una stupida se ti illudi che mio fratello ti dia
retta. Lui fa solo quello che gli dico io!”
“Parla piano!” Carlotta era esasperata. Si sentì impotente
di fronte alla protervia del cugino e con disappunto
sentì che i suoi occhi erano diventati lucidi di pianto.
Gino si accorse della sua frustrazione e, rincarò la
dose:
“Hai un minuto di tempo per decidere... Altrimenti
non basteranno le tue due stupide figurine per avere questo
pezzo raro.”
A Carlotta quei due cugini non piacevano per niente.
Gino poteva sembrare un bel ragazzino, ma aveva due
occhi che facevano paura. Peppe, succube del fratello
più grande, non parlava quasi mai se non per dare ragioLa
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ne a Gino. Che si trattasse di decidere il gioco da fare o
il colore da usare per un disegno, Peppe ripeteva, sempre
e soltanto, le stesse parole del fratello.
Carlotta sentì un nodo in gola, un amaro sapore di nostalgia.
Pensò agli amici di Palermo, alle gite al mare, ai
suoi giochi. Sconsolata, ammise che i suoi cugini erano,
al momento, gli unici che potessero farle compagnia e
giocare con lei.
“Il minuto di tempo è passato, adesso puoi scordarti
questa bella figurina, non te la do neanche se me ne dai
dieci!”
Lei, che si era persa nei suoi pensieri, si morse il labbro
inferiore per trattenere il pianto, ma lo sforzo fu inutile.
Due lacrimoni le scesero sulle guance e, cercando di
non farsi vedere, li asciugò subito col dorso delle mani.
“Sei proprio una bambina piccola, non fai altro che
piagnucolare!”
“Non sono una bambina piccola e non sto piagnucolando.”
Si alzò cercando di darsi un contegno e, afferrando il
ramo più basso dell’albero di limone, puntò i piedi sul
tronco per salire. Con la mano libera afferrò un limone
grosso e giallo, lo strappò dal ramo e si lasciò cadere in
terra, orgogliosa della sua preda.
Gino guardò tra i rami alla ricerca di un altro limone,
per imitarla, ma i frutti erano troppo in alto anche per lui
e rinunciò:
“Anche se hai preso quel limone, sei una bambina
piccola e piagnucolosa e la figurina me la tengo io, a
meno che...”
“A meno che, cosa?”
Gino guardò Peppe con aria furba e si rivolse a lui:
“Fratellino... Forse potrei dare la figurina a Carlotta,
ma dovrebbe fare la bambina grande e non piagnucolare.”
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“Sì, sì.” Peppe assentì pur non avendo la minima idea
del piano del fratello.
“Accetto.” Carlotta desiderava tanto quella figurina
per completare la sua collezione.
“Non credo che ne sarai capace!” Gino la sfidò.
“Giuro.”
“Allora devi pagare pegno e fare quello che ti dirò.
Se farai la grande e non ti metterai a frignare, avrai la
tua figurina.”
“Sono pronta, che pegno devo pagare?”
Gino dette una pacca sulla spalla al fratello e con aria
da grand’uomo ordinò:
“Fratellino, finalmente è arrivato il tuo momento...
Venite con me!”
“Dove andiamo?” Carlotta era curiosa e in ansia per
il pegno, ma seguì i due cugini.
“Hai promesso di fare la grande e di non piangere...
Quindi statti muta e fai quello che ti dico.”
Il ragazzino fece strada. Si avviò verso il fondo del
giardino, aprì il magazzino degli attrezzi, fece entrare gli
altri due e richiuse la porta alle sue spalle.
Furono avvolti dalla penombra e i ragni, impauriti
per l’intrusione, si fissarono immobili alla tela. In un angolo
alcuni sacchi di carbone e, accanto, una zappa e
una pala per i lavori in giardino. Su una mensola utensili
per i piccoli lavori di riparazione, e chiodi e viti di varie
misure.
I tre arricciarono il naso per la puzza di chiuso e umido
ma Gino non dette il tempo a nessuno di protestare e
con tono di comando disse a Carlotta:
“Siediti per terra.”
“Ma è sporco!” protestò.
“Non cominciare a fare i capricci... Vuoi la figurina?
Devi pagare pegno!”
“Ma per terra è schifoso!”

Fonte: La lettera perduta di Albert Danton

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