Storia di un deportato di Mazzarino

In occasione della giornata della Shoah, dedicata a tutti gli ebrei, italiani, polacchi e russi che sono stati uccisi nei campi di concentramento nazisti. Vi vogliamo proporre la storia di Salvatore Giujusa, soldato italiano originario di Mazzarino, che ha combattuto prima in trincea, poi nella resistenza e poi deportato nei campi di sterminio. Una storia che ha dell'incredibile, che racconta le tragedie e le sofferenze di un intera popolazione.


Aveva viaggiato per giorni stipato in soffocanti vagoni da bestiame. Partito da Udine, destinazione Dachau. Tutto sembrava incomprensibile e folle. Una marcia inconsapevole verso il campo di concentramento. Sono occhi pieni di stupore, innocenza, occhi che interrogano. Occhi che non sanno, quelli del deportato siciliano Salvatore Giujusa, all' ingresso di quello che «aveva l' aspetto di un cimitero». Ma pur sull' orlo dell' abisso, nel suo diario di prigionia che ora viene pubblicato, l' autore mostra la vita, non la morte. Pur nelle difficoltà più estreme, equilibrio interiore, tanta forza morale e schiettezza di spirito animano "Il tempo di nessuno" del prigioniero siciliano. Mazzarinese, nato nel 1919, Giujusa fu nei campi di concentramento come deportato politico. Visse la sua vicenda tra il 29 settembre ' 44 e il 15 aprile ' 45, uscendone vivo a mezz' ora dal forno crematorio. Fino al 1953 sottufficiale dei carabinieri, dal 1954 al 1977 comandante dei vigili urbani della sua città. La svolta avviene il 25 luglio del ' 44, quando l' Arma dei carabinieri di Trieste viene sciolta. Giujusa, allora, si arruola nella Polizia economica (Guardia di finanza) e, a seguito di uno scontro con i partigiani, passa decisamente nelle loro file, fino a quando viene catturato dai tedeschi. Il diario è diviso in tre parti: "Il ricercato", "La guerriglia partigiana", "Il calvario di filo spinato". Nella prima l' autore descrive la situazione all' indomani dello sbandamento dell' arma nell' «ultimo baluardo rimasto a presidiare le terre della Venezia Giulia». I carabinieri hanno due alternative: collaborare con i nazifascisti o farsi internare nei campi di concentramento. La mattina dell' arrivo dei tedeschi Giujusa non si trova in caserma: «Fui il militare più fortunato della legione, tutti scelsero la seconda possibilità». Da quel momento il giovane è costretto a nascondersi da una soffitta a un' altra per non farsi trovare dai tedeschi. Lo vediamo insieme con due amici a casa della famiglia Toto, «ingoiati da un buio pesto, fra ciondoli e ragnatele». La seconda parte rappresenta la sua esperienza partigiana nella zona di Udine. «I garibaldini ci offrivano di liberarci dai militi e dai tedeschi e ci considerarono sin dal primo momento appartenenti alle loro file». Momento di svolta emotiva è la caduta in mano tedesca. «Mentre cercavamo rifugio in un burrone, ci fu intimato l' alt. I sicari, dopo averci contati, scelsero sette di noi che obbligarono a inginocchiarsi con la faccia per terra. Io rimasi fra i cinque non scelti. Mai la vita ci fu così cara». Inizia, così, il calvario del deportato. Teatro delle vicende della terza parte sono i lager in cui viene trascinato: Dachau (dove è tornato pochi anni fa come testimonia la foto accanto), Neuengamme, Bergen Belsen e i sottocampi Ladelund e Dalum. Nato per dare voce al dolore, «al bisogno insopprimibile di raccontare», il diario di Giujusa finisce per ritrarre la vita. A guidarlo, anche a un passo dall' inferno, sono tre bussole: Dio, patria e famiglia. Il sentimento patriottico si può riscontrare in due momenti del percorso del giovane deportato. Quando i carabinieri scelgono di farsi internare nei lager piuttosto che collaborare con i nazifascisti, e durante uno scontro in cui Giujusa, assieme ad altri ex carabinieri, non si sente di sparare sui partigiani. «Non sparammo, perché sparare significava andare contro i nostri fratelli». Del «calvario di filo spinato» è documentata ogni fase, dall' arrivo alla perquisizione dei beni, fino alla condanna finale. «Da quel momento non esistette più il mio nome, mi chiamarono 112895. Non ero più considerato un uomo o una persona; ero diventato un numero, una bestia». Leggendo il racconto, è come se si sentissero ancora i gemiti dei prigionieri per le nerbate subite, per la fame e la sete. «Mi si erano negate le bucce di patate, quelle bucce piene di terra che non si danno nemmeno ai maiali». E ancora: «Arso com' ero dalla sete, fui costretto a bere l' urina di un altro prigioniero». La prosa del diario è asciutta, essenziale ma non arida. Sembra una scrittura cinematografica, quella con cui l' autore fin dalle prime pagine accompagna il lettore dentro il dramma vissuto. Tutto il diario è costruito secondo un climax ascendente, con un ritmo che cresce man mano che si svolgono gli avvenimenti. La scena davanti al forno crematorio a Belsen segna il momento più alto: «Con lo spirito direi quasi distaccato dalla vita terrena, attendevo che giungesse il mio turno». All' arrivo degli alleati, il giovane Giujusa si salva nel «tempo di nessuno», nell' intervallo in cui i tedeschi erano scappati e i liberatori non erano ancora entrati nel campo. Rimasto senza forze, per sua fortuna non corre verso il filo spinato ancora carico di corrente elettrica, come avevano fatto altri compagni, morendo. Il completo scioglimento della tensione si raggiunge nel momento in cui Giujusa, rientrato in Italia, riesce ad abbracciare la sua famiglia: «Mia madre mi strinse al cuore, forte; non so se per un minuto o per un secolo. Ritornavo alla vita». Il diario verrà presentato domani a Mazzarino. Alla manifestazione parteciperanno i familiari di Giujusa e due docenti dell' Università di Torino, Brunello Mantelli e Giovanna D' Amico, autrice di un saggio sui deportati siciliani. L' incontro sarà aperto da un messaggio audiovisivo dell' ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.
GIUSEPPINA VARSALONA

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